A Raqqa, nel carcere delle donne della Jihad

Testo di Sara Manisera
Fotografie di Arianna Pagani
28 Set 2018

Articolo pubblicato suI Il Venerdì di Repubblica

Siria, Raqqa - Prima di iniziare a parlare, Aisha Abudl Gani si accende una sigaretta. È una donna elegante e raffinata, coperta da un lungo chador nero. Ha le palpebre truccate, con un filo di matita color corvino e un ombretto argentato. La sua cella è una minuscola stanza buia, affollata da un nugolo di mosche. Il pavimento è un pantano di acqua stagnante e rifiuti che emana un odore rancido. Su una parete, un antico proverbio arabo rievoca il profeta Maometto: “Non cercare la verità purché non provenga dalla fonte”. Altri tre loculi accolgono sedici donne e trentacinque bambini, scalzi e sudici. Sono le mogli e i figli dei combattenti dello Stato Islamico. Arrivano da Germania, Marocco, Tunisia, Russia e dalla stessa Siria. I loro mariti e padri sono stati uccisi o arrestati mentre tentavano di fuggire da Raqqa, una delle roccaforti dell’Isis, conquistata a gennaio 2014 e proclamata capitale del Califfato nel giugno dello stesso anno.

Da circa tre mesi queste donne sono rinchiuse in un’ala speciale del campo per sfollati interni di Ain Al-issa, a settanta chilometri a nord di Raqqa, separate solo da un muro azzurrastro dai civili in fuga che riempiono le tende arse dal sole. Ciondolano, attendono il pasto giornaliero e pregano. Alcune vorrebbero ritornare nei propri Paesi d’origine, altre ritrovare i loro mariti. Un numero esiguo crede che, dopo il ritiro nel deserto, il Califfato risorgerà ancora più forte.

«Ho incontrato l’uomo della mia vita la prima settimana che ero a Raqqa. Non credo nel jihad, né alla Dawla (lo Stato Islamico, ndr)» racconta Aisha in inglese. «Ho sempre indossato un normale hijab, e tornerò a farlo quando sarò fuori da qui. Non ho fatto niente di male, voglio solo ritrovare mio marito». Aisha Abudl Gani, trent’anni, ha una storia insolita. Un cecchino del regime di Bashar al-Assad uccide il primo marito a Homs nel 2011, quando le piazze, dopo la preghiera del venerdì, si riempivano di civili che chiedevano libertà. Insegnante d’inglese e madre di tre figli, Aisha si rifugia a Damasco per quattro anni, poi la scelta di raggiungere la famiglia in Turchia. «Mi hanno consigliato di prendere un autobus per Raqqa e da lì proseguire per Bab-al Salam, ma quando sono arrivata la polizia islamica mi ha detto che il passaggio era chiuso e che, essendo musulmana, dovevo rimanere lì» ricorda la donna.

Aisha insieme ai suoi figli, seduta sul pavimento della sua stanza nel campo di Ain al-Issa il 9 settembre 2017.

Aisha insieme ai suoi figli, seduta sul pavimento della sua stanza nel campo di Ain al-Issa il 9 settembre 2017.


Aisha resta bloccata a Raqqa con i suoi figli e lì incontra il suo secondo marito, Abo Omar Al-Magribit, un miliziano marocchino dell’Isis, figlio di ricchi commercianti d’oro. S’innamorano e decidono di sposarsi. «Voleva combattere il regime di Assad. Suo cugino gli mandava i video delle torture e dei civili ammazzati. Voleva unirsi al movimento di liberazione ma quando è arrivato a Raqqa ha visto l’altra faccia della medaglia». Colori e animali proibiti sugli abiti dei bambini. Multe agli uomini rei di fumare, frustate alle donne, torture, decapitazioni. «Mio marito si è pentito della sua scelta due mesi dopo essere arrivato a Raqqa. Voleva tornare in Marocco ma gli hanno sequestrato il passaporto. Quando ci siamo sposati, abbiamo provato a fuggire ma era difficile, e servivano diecimila dollari per pagare un trafficante che ci portasse fuori».

Con l’inizio dell’offensiva per la riconquista di Raqqa e con i miliziani dell’Isis impegnati sul fronte militare, numerose famiglie dello Stato Islamico e migliaia di civili sono riusciti a fuggire. Circa trecentomila profughi sono transitati da Ain Al-issa in questi dieci mesi, e novemila sono gli sfollati che vivono in questo sterminato accampamento di tende allineate. «Le persone in fuga da Raqqa avevano tre scelte: scappare verso zone controllate dal regime, seguire i miliziani dell’Isis verso Dayr az Zor e al-Mayadeen o rifugiarsi nei territori controllati dalle Forze siriane democratiche. L’80 per cento ha scelto la terza opzione» spiega Abdul Salam Ham Surk, responsabile del comitato degli aiuti umanitari del nuovo Consiglio civile di Raqqa, guidato da un curdo e da un arabo.

Anche Aisha e il marito si sono consegnati alle Forze siriane democratiche, un’alleanza curdo-araba mista ad alcune tribù locali, sostenuta dagli Stati Uniti, in funzione anti-Isis, con prevalenza di combattenti curdi delle unità di difesa popolare, Ypg e Ypj, vicini al Pkk. Lui è stato
arrestato e rinchiuso in carcere a Qamishlo, mentre lei attende insieme ai figli, in questo campo, come in un limbo. Non sa cosa ne sarà di lei.

Mentre il progetto dello Stato Islamico si sgretola in Siria e in Iraq, il destino delle donne e dei bambini rappresenta una delle sfide più grandi per le autorità locali e per i governi occidentali. Poche settimane fa un gruppo di mogli dei miliziani, indonesiane e russe, è stato rimpatriato nei rispettivi Paesi, in seguito ad alcuni accordi diplomatici, ma per le donne siriane il futuro resta incerto. Tutto dipenderà da come finirà la guerra civile e da chi controllerà il territorio. Intanto, sulla linea di confine che segna l’inizio del governatorato di Raqqa, la foto di Bashar al-Assad è stata rimossa. Al suo posto sventolano le bandiere verdi e gialle con la stella rossa di Ypg e Ypj, rivelatesi fondamentali a Kobane.

Aisha e suo figlio nella struttura di detenzione nel campo di Ain al-Issa il 9 settembre 2017.

Aisha e suo figlio nella struttura di detenzione nel campo di Ain al-Issa il 9 settembre 2017.

In uno squallido angolo cottura, la giovane Khadija al-Humri soffrigge pomodoro e cipolla su una bombola di gas, per le sue tre piccole creature che conoscono solo l’orizzonte del campo recintato: «Voglio ritornare in Tunisia, dalla mia famiglia» dice. Suo fratello è in Italia ma non vuole parlarle da quando ha saputo che ha preso parte allo Stato Islamico. «Nessuno lo sapeva, io e il mio primo marito siamo andati in Libia e poi in Turchia. Lì ci hanno aiutato ad attraversare il confine. Passava tutto: uomini, armi e droni». Il marito è stato ucciso in un combattimento dall’Esercito siriano libero e lei ha vissuto in una madafa, un pensionato femminile. Dice di essersi pentita e di aver commesso un grande errore. «I membri dell’Isis bevono whisky, prendono droghe, vendono le donne nei mercati. Pensano solo a soldi e potere. Appendevano le teste in mezzo alla strada come monito. Non puoi fidarti di nessuno, perché la polizia segreta è ovunque. Quando chiacchiero con le altre donne, io dico che dobbiamo tornare a casa, che quello non era il vero Islam. Alcune di loro mi dicono “no, non è vero, non è così”, vogliono tornare nello Stato Islamico».

Khadija, una ex sposa dell'ISIS, abbraccia uno dei suoi figli nel campo di Ain al-Issa a nord della città di Raqqa il 9 settembre 2017

Khadija, una ex sposa dell'ISIS, abbraccia uno dei suoi figli nel campo di Ain al-Issa a nord della città di Raqqa il 9 settembre 2017


È tardo pomeriggio. Il sole surriscalda  ancora il tetto in lamiera che offre un po’ di ombra a questo ginepraio di vite in sospeso. Agiar, 22 anni, di Hama, chiama a raccolta le altre donne per la terza preghiera. Ghermisce il Corano tra le mani, con un’espressione superba. «Lo Stato Islamico non è ancora finito» sentenzia in arabo, «andrò in Russia». Agiar non vuole rilasciare un’intervista. Le altre donne riferiscono che è una combattente, che insegnava le arti marziali ai bambini nelle scuole dell’Isis.  

Avvicinandosi ai villaggi liberati, alle porte di Raqqa, l’Eufrate e i suoi rivoli trasformano il paesaggio brullo in rigoglioso. Si scorgono bambini anneriti pascolare le greggi, tende di tribù beduine, mercati di baratto del bestiame e motociclette che zigzagano sulla strada danneggiata dai veicoli militari e dai bombardamenti della coalizione. Le donne curve nei campi di bulgur, gli uomini trafficano mazout, un tipo di gasolio che è il nuovo business di guerra. Veicoli carbonizzati, edifici accartocciati, case e ponti bombardati segnano la vicinanza alla linea del fronte, spostata all’interno della città di Raqqa. L’ong italiana Un Ponte Per e la Mezzaluna Rossa Curda sono le uniche organizzazioni ad assistere feriti e civili in fuga. Nel cortile di una casa, non molto lontano dalla clinica, un gruppo di donne stende i panni. Sono scappate da Raqqa un paio di mesi fa e hanno occupato una vecchia base logistica dei miliziani. Hanno ricominciato a indossare le tradizionali vesti multicolori. Il cielo è occupato dagli elicotteri e il silenzio apparente è rotto dal boato dei bombardamenti. Accanto a loro una bambina vispa e sorridente afferra un pupazzo. Prende un foulard nero e lo avvolge intorno alla sua bambola. Le copre il corpo, il viso e gli occhi. Le stacca la testa e la ripone in una cassetta di frutta.

Didascalia di copertina: Raqqa, Siria. Dentro alla struttura di detenzione nel campo di Ain al-Issa il 9 settembre 2017.

Didascalia di copertina: Raqqa, Siria. Dentro alla struttura di detenzione nel campo di Ain al-Issa il 9 settembre 2017.

 

Didascalia di copertina: Raqqa, Siria. Dentro alla struttura di detenzione nel campo di Ain al-Issa il 9 settembre 2017.