Mozambico: le pietre dello scandalo

di Marco Simoncelli
Dossier Mag 2019

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Sprofondati nell’illusione

Mozambico. È ancora buio quando Felisberto Juliaõ Navedano esce dalla casa del suo piccolo villaggio a poca distanza dal centro urbano di Metoro nella provincia di Cabo Delgado, all’estremo nord del Mozambico. Si dirige verso degli chapa, pulmini sgangherati riempiti fino all’inverosimile che costituiscono il principale mezzo di trasporto nel paese, “Vado a trovare i miei ragazzi nel ‘mato’. Una volta anch’io ero uno di loro, poi ho iniziato il mio percorso religioso e ora mi dedico a portare aiuto e la parola di Dio. Cerco di convincerli a fare la mia stessa scelta”.

Felisberto è un volontario missionario cattolico di 26 anni, ma fino a qualche anno era un garimpeiro informale che si nascondeva nelle sterminate boscaglie semidisabitate di questa regione. “Cercavamo quelle pietre rosse e brillanti, convinti che ci avrebbero cambiato la vita, ma quelle gemme sono rosse perché intrise di sangue”. Felisberto si riferisce ai rubini e agli immensi giacimenti che sono stati scoperti nel distretto di Montepuez quasi dieci anni fa.

Percorrendo la strada statale che dal capoluogo della provincia, Pemba, punta verso l’entroterra in direzione della cittadina di Montepuez attraversando il distretto di Ancuabe, il volontario scende dallo chapa di fronte a un piccolo bar circondato sul retro da qualche casupola in legno e lamiera. Parla con alcune mulheres mozambicane vestite di tipiche capulane colorate e cariche di frutta, manioca, galline e pesce essiccato che, assieme a uomini che imbracciano picconi e vanghe, aspettano accanto un vecchio pickup arrugginito. Sale con loro sul cassone e il mezzo parte sparato verso la foresta seguendo la strada sterrata. Dopo circa tre ore di selvaggia natura mozambicana, il pickup giunge a un insediamento che non compare su nessuna cartina.

“Questo posto ha un nome che tutti conoscono nella zona, ma non posso dirlo. Vogliono che rimanga nell’ombra”, afferma Felisberto. Si tratta a tutti gli effetti di un piccolo villaggio nato, come altre decine, nelle foreste a seguito della “febbre del rubino” scoppiata allo spargersi della voce sulla presenza delle pietre preziose. Fra le centinaia di piccole strutture in legno ci sono bar e negozi che vendono un po’ di tutto e una piazzetta adibita a mercato. L’economia di questo posto gira attorno ai rubini. Come nel far west ai tempi della febbre dell’oro, nei negozi si vendono picconi, pale, teli, corde e torce, oltre a semplici beni di prima necessità destinati ai garimpeiros che qui vengono a rifornirsi. Ma soprattutto, “qui si viene a vendere le pietre ai rivenditori che poi le portano via”, come spiega il giovane volontario indirizzando il suo sguardo verso un gruppo di uomini seduti ad un tavolino su cui sono disposte delle piccole bilance.

Felisberto si avvicina a dei ragazzi che bivaccano accanto alle loro moto sorseggiando l’Impala, una birra mozambicana a base di miglio. Dopo qualche minuto di trattativa sale in sella con uno di loro e imbocca un sentiero addentrandosi ancor più in profondità nel mato (bosco in portoghese). La moto sfreccia per ore ad alta velocità su terreni sconnessi, sfiorando rami e guadando ruscelli fino a fermarsi di fronte a una corda tesa fra due cespugli. Dalla penombra della foresta, si alzano due uomini armati di mitragliatori che chiedono di identificarsi. Felisberto tira fuori dal suo zaino una lettera firmata e spiega “ho il permesso per venire qui ad insegnare la parola del Signore”. Le guardie del posto di blocco lo fanno passare dopo la consegna di una “tassa” e una bottiglia d’acqua.

Dopo circa una ventina di minuti il bosco si dirada e il paesaggio muta improvvisamente. Il terreno è crivellato da innumerevoli buchi di cui non si vede il fondo. Enormi montagne di terra rossa sono accumulate ai lati e qua e là spuntano giovani uomini a torso nudo che, sporchi e madidi di sudore, sono intenti a scavare o a trasportare sacchi pieni di pietrame verso un ruscello dove altri sono intenti a setacciare. “Queste sono le miniere illegali di rubini. Qui lavorano e vivono migliaia di ragazzi venuti da ogni dove in cerca di fortuna. Ed è lì che vivono”, racconta Felisberto, indicando capanne di arbusti e teli di plastica sparse un po’ ovunque.

I garimpeiros sfidano ogni giorno la sorte in gallerie profonde oltre 30 metri, scavate a mano e senza alcuna protezione. In fondo a una valle sfigurata dagli scavi Selemane Issuto, 21 anni, tiene tesa la corda a cui è aggrappato suo fratello maggiore Faque che, con una lanterna sulla testa, si sta calando sotto terra. “Siamo arrivati dalla provincia di Nampula quattro anni fa. Lì non c’è lavoro né futuro, ma qui abbiamo una possibilità. Se troviamo la pietra buona possiamo fare soldi e tornare a casa per aprire un negozio. - racconta affaticato e poi prosegue – Si possono guadagnare migliaia di dollari con un solo rubino”. Giovanissimi minatori vestiti di stracci lavorano in piccoli gruppi con un supervisore e si dividono i guadagni delle rarissime scoperte che il più delle volte si limitano a rubini di modeste dimensioni, di sicuro insufficienti a dare una svolta alla loro vita. Le condizioni di lavoro dei garimpeiros nelle miniere sono “disumane, poiché mancano cibo e servizi igenico-sanitari, la malnutrizione è endemica e malattie come malaria e colera si diffondono rapidamente. Per non parlare delle patologie polmonari causate dall’inalazione continua di polveri”, come conferma a Nigrizia il medico Samuel Mussa, che ha compiuto degli studi nell’area per Medicus Mundi. Fra le capanne circola alcool e droga “che i garimpeiros usano per alleviare la fatica, ma che distruggono le loro giovani menti facendogli perdere lucidità. Cosa molto importante quando ci si trova in equilibrio precario a trenta metri sotto terra. Molti svengono e soffocano lì sotto”, conclude il medico.

Incidenti e crolli nelle miniere sono molto frequenti. “Basta una piccola frana, un piede messo male, e moriamo tutti. Anche perché non ci sono ospedali e nessuno ci soccorre”, spiega il minatore zimbabwano Johane. “Conosco i rischi perché ho già cercato oro nel mio paese. Sono venuto qui sette anni fa perché altri conoscenti ce l’hanno fatta. Ora sono ricchi”. Da quando è scoppiata la febbre del rubino, i minatori sono venuti in cerca di fortuna nel distretto di Montepuez anche dai paesi vicini, come Johane fra i garimpeiros ci sono numerosi tanzaniani, malawiani e addirittura congolesi.

Oltre agli uomini, nella comunità della miniera lavorano anche molte donne, alcune delle quali con figli.

“Anche se coinvolte nella ricerca delle gemme, spesso si prostituiscono per necessità e finiscono vittime di discriminazioni e violenze. In questo contesto sono molto vulnerabili ed esposte all’Hiv. Dobbiamo fare prevenzione”, spiega Felisberto.

Nel 2009 la scoperta di quello che viene considerato come il più importante giacimento di rubini scoperto nel 21esimo secolo, ha attirato in queste località migliaia di persone e non si sa quante miniere illegali esistano. Era prevedibile in un paese con un indice di sviluppo umano fra i più bassi al mondo (181° posto), con un tasso di disoccupazione superiore al 25%, che si impenna nel nord soprattutto fra i giovani, e con almeno due terzi dei suoi 29 milioni di abitanti che vivono al di sotto della soglia di povertà. Ma nel 2011 il governo di Maputo concesse lo sfruttamento di 36mila ettari alla Montepuez Ruby Mining (MRM), per tre quarti di proprietà della britannica Gemfields.

Ovviamente solo la MRM è legalmente autorizzata a scavare e quindi i garimpeiros sono considerati ladri e devono darsi alla macchia nascondendosi nella boscaglia. Vengono braccati dalla polizia e fino a poco tempo fa anche dalle compagnie di sicurezza della MRM. “I poliziotti ci perseguitano. Chiedono soldi, bruciano le nostre case, ci arrestano e torturano. In alcuni casi hanno anche ucciso seppellendo vivi dei minatori”, racconta lo Chefe da comunidade, Francisco Adamo “Sono oro la nostra peggiore paura, non le buche”. Sia le autorità mozambicane che la MRM hanno smentito di esserne a conoscenza, ma molte Ong hanno documentato diversi casi. Lo scorso gennaio una class action promossa contro la Gemfields ha registrato una sentenza che ha imposto alla multinazionale un risarcimento di più di 7 milioni euro relativo a 273 denunce di violazioni dei diritti umani.

Nonostante le difficili condizioni e l’opposizione delle autorità, questa economia mineraria clandestina continua ad alimentarsi grazie al traffico illegale di pietre preziose. Le gemme vengono vendute al mercato nero che, secondo quanto rivelato a Nigrizia da fonti locali, sarebbe gestito principalmente da organizzazioni tanzaniane e nigeriane. Grazie ai porosi confini del Nord del Mozambico, le pietre migliori verrebbero esportate e immesse nel mercato internazionale da grossisti asiatici.

Da quasi un anno e mezzo, però, la provincia di Cabo Delgado è afflitta da un misterioso gruppo armato chiamato al-Sunnah, che attacca villaggi causando, ad oggi, più di cento vittime. Molti elementi fanno pensare si tratti di radicalismo islamico, ma diversi studiosi mozambicani hanno avanzato l’ipotesi secondo cui dietro gli oscuri miliziani ci sarebbero persone interessate a destabilizzare la regione per favorire traffici illegali di materie prime come legno, avorio, oro eappunto rubini di cui è ricca Cabo Delgado.

“Personalmente non so se ci sono legami con quello che sta succedendo con i terroristi – spiega Francisco Adamo, mentre pesa dei piccoli rubini su una bilancia. Resta ad osservare rapito le gemme per qualche istante e poi conclude: “So solo che queste pietre ce le ha date Dio e continueremo a cercarle, perché non abbiamo altra scelta”.

Gemme insanguinate

Lo scorso gennaio la compagnia britannica Gemfields ha accettato di pagare un indennizzo di 8,3 milioni di dollari relativo a 273 denunce di violazioni dei diritti umani, presentate grazie ad una class action di centinaia di vittime e avvenute dentro e nelle vicinanze della sua concessione mineraria di Montepuez, nella provincia mozambicana di Cabo Delgado. Un risarcimento che è stato ordinato dalla Corte Suprema del Regno Unito, interpellata dallo studio legale per i diritti umani Leigh Day nell’aprile del 2018, e al quale si è giunti a seguito di una lunga mediazione dopo cui il gigante delle gemme preziose, proprietario della famosa casa di gioielli Fabergé, ha ammesso che ci sono stati degli abusi, ma optato per la “non ammissione di responsabilità”. La Gemfields, che da sempre si vanta di portar avanti le sue operazioni in maniera responsabile ed etica, ha anche annunciato la creazione di un comitato indipendente che si occuperà di risolvere qualsiasi eventuale caso di abuso venisse presentato in futuro.

Quando gli avvocati della Leigh Day portarono il caso di fronte ai giudici presentarono prove di “seri abusi di diritti umani” che erano legati alla Montepuez Ruby Mining Ltd (MRM), società di cui la Gemfields è socio di maggioranza. Nelle accuse si parlava di 18 uccisioni commesse dalla Unidade de Intervenção Rápida (UIR) della polizia mozambicana e dalle compagnie di sicurezza assoldate dalla miniera, e di numerose violazioni come pestaggi, torture e violenze sessuali ai danni di minatori informali che operano ai confini della concessione mineraria e degli abitanti dei villaggi ripetutamente attaccati e incendiati di Namucho e Ntoro, che invece si trovavano al suo interno e dovevano essere reinsediati. Apparentemente sembrerebbe che tutto si sia concluso nel migliore dei modi con una sentenza arrivata in tempi piuttosto rapidi e apparentemente vantaggiosa per le vittime, ma secondo le testimonianze di numerosi garimpeiros (minatori informali) raccolte da Nigrizia in diverse miniere abusive, gli abusi e le violenze ai loro danni starebbero continuando, specie da parte delle forze di polizia.

“C’è un conflitto in corso tra i garimpeiros e le imprese che continuerà”, dichiara a Nigrizia, Ivan Zahinos Ruiz, coordinatore per Medicus Mundi Catalunya in Mozambico direttamente coinvolto in progetti sanitari con i minatori informali di Cabo Delgado, che prosegue: “Anche se i minatori informali sono arrivati prima e hanno iniziato a vivere di questo, la legge in vigore stabilisce che la terra appartiene prima di tutto allo Stato, che ha scelto le più lucrative concessioni alle imprese di minerali”.

Ci sono diversi lati oscuri nella storia di come la Montepuez Ruby Mining (MRM) si sia aggiudicata e abbia sfruttato la concessione mineraria di 36mila ettari posta su un deposito che, a detta degli esperti, potrebbe rappresentare il 40% delle risorse mondiali di rubini scoperte nel mondo. La MRM ha legami con le alte sfere della politica mozambicana. È una partnership tra la suddetta Gemfields che ne detiene il 75% della proprietà e la mozambicana Mwiriti Lda che possiede il restante 25%. Basti pensare che come presidente del consiglio di amministrazione di quest’ultima c’è Samora Machel Jr, figlio del padre della nazione Samora Machel, che fu il primo Presidente del Mozambico indipendente. Ma prima di tutto la Mwiriti è controllata dall’ex-generale della lotta di liberazione, Raimundo Pachinuapa, membro influente del Fronte di Liberazione del Mozambico (FRELIMO), il partito politico che governa il paese sin dall’indipendenza dal Portogallo nel 1975, ed ex-Governatore della Provincia di Cabo Dlegado. È lui l’uomo chiave dei ricchi affari della MRM. Un personaggio apparso perfino nelle pagine dei Panama Papers del 2016, da cui è emerso che avrebbe evaso il fisco e trasferito fondi nei paradisi fiscali assieme ad altre personalità di spicco.

Quando nel 2009 il contadino Suleimane Hassane si imbatté per sbaglio in un rubino nel suo terreno scoprendo di fatto l’enorme deposito quasi a cielo aperto, la cosa attirò l’attenzione dei big mozambicani tra cui Pachinuapa. Stando a quanto rivelato nell’inchiesta durata tre anni del giornalista Estacio Valoi che, per conto di 100Reporters, nel 2016 svelò i casi di abusi della MRM a Montepuez, l’ex-generale si appropriò della terra facilmente abusando del proprio potere senza mai pagarla. Successivamente fondò la Mwiriti, ottenne la licenza di prospezione in un battito di ciglia e cercò dei partner per sfruttare il giacimento. Fu allora che entrarono in gioco i britannici della Gemfields con cui Pachinuapa firmò un accordo nel 2011. Il giacimento produce molte gemme e di una buona qualità, di conseguenza sulla multinazionale britannica, come sul suo partner, è cominciato a piovere denaro. Le dieci aste di pietre preziose che la Gemfields ha fatto dal 2014 ad oggi hanno fruttato 407 milioni di dollari.

Lo scorso giugno in una sola asta a Singapore ha guadagnato la cifra record di 72 milioni di dollari e i rubini sono stati venduti a 122$ al carato, un prezzo raddoppiato rispetto all’anno prima. Mentre Pachinuapa e la Gemfields si arricchivano, per la popolazione iniziò l’inferno. Dentro e attorno alla concessione mineraria cominciarono ad apparire cartelli che vietavano di scavare, costruire o coltivare. La terra arabile venne espropriata a centinaia di famiglie senza adeguata compensazione in termini di denaro o servizi. La popolazione provò ad opporsi come anche i giovani minatori che, senza alternative, non potevano far altro che scavare illegalmente. Fu allora che, stando all’inchiesta di 100Reporters, la MRM cominciò ad ottenere il controllo attraverso violenze sistematiche. Vennero dispiegati centinaia di militari della UIR assieme a contractor della compagnia di proprietà sudafricana Arkhe Risk Solutions, che iniziarono a compiere violenti raid con bulldozer, gas lacrimogeni e armi. Il picco delle violenze è avvenuto tra il 2013 e il 2015, ma i raid sono stati registrati fino al 2017. Le abitazioni e i beni dei già citati villaggi di Namucho e Ntoro sono stati distrutti o dati alle fiamme e gli abitanti picchiati o arrestati. Secondo le testimonianze, fra i minatori di Montepuez si era sparso il terrore di un’oscura gang chiamata “Nacatanas” che giravano fra le foreste armati di bastoni e machete picchiando e torturando i garimpeiros.

“Sono stato sul campo sette volte per raccogliere prove e le violenze che ci sono state raccontate sono scioccanti. Le forze di sicurezza hanno sparato sui civili e compiuto arresti arbitrari e stupri nei villaggi. Abbiamo video che testimoniano le torture umilianti subite dai garimpeiros e ci sono prove di persone seppellite vive dai bulldozer”,

dichiara a Nigrizia Matthew Renshaw, uno dei legali della Leigh Day che si è occupato del caso. “La MRM è coinvolta, anche se indirettamente, con i suoi impiegati e contractors. In gennaio abbiamo ottenuto un buon accordo di risarcimento e siamo ottimisti sul fatto che la Gemfields lo rispetterà”. Ma la verità, conclude Renshaw, “è che tutte le grandi compagnie presenti nella regione fanno poco per creare occupazione e compensare dopo gli espropri. Ciò continuerà ad alimentare il malcontento”.

Ribelli senza volto

Da più di 18 mesi la provincia di Cabo Delgado, la più settentrionale e remota del Mozambico confinante con la Tanzania, è ostaggio di un gruppo ribelle divenuto sempre più violento e la cui identità non è ancora chiara. I miliziani dal volto coperto continuano a compiere raid nei villaggi armati di fucili mitragliatori, machete e coltelli. Gli attacchi in cui vengono incendiate abitazioni e trucidati uomini, donne e bambini, sono ormai divenuti routinari e hanno provocato più di 150 vittime oltre a migliaia di sfollati. Il modus operandi del gruppo, il fatto che inneggi Allah e che, stando alle ricostruzioni degli esperti, professi un’applicazione rigorosa della shari’a, fa pensare che si tratti di radicalismo islamico. La popolazione chiama questi oscuri miliziani “al Shabaab”, che in arabo significa “i giovani” e sembrerebbe un velato riferimento all’omonimo gruppo jihadista somalo, con il quale però non esiste alcun legame formale accertato.

Alcuni studiosi hanno denominato il gruppo Ahlu Sunnah Wa-Jammá (ASWJ), che significa “aderenti alla tradizione profetica” e viene spesso abbreviato in “al-Sunnah”. L’ipotesi, più accreditata al momento, è che si tratti di una fazione più radicale che si è distaccata da una setta wahabita mozambicana registrata ufficialmente e chiamata “Ansaru-Sunna”. L’elemento più enigmatico è che il gruppo non fa rivendicazioni né annunci che possano farne comprendere i reali obiettivi. Si limita a colpire in diverse zone nell’area costiera della provincia di Cabo Delgado in una fascia territoriale ampia circa 150 km che si estende dalla costa verso l’interno e da nord del capoluogo, Pemba, fino al confine con la Tanzania. È probabile che sia formato da qualche centinaio di uomini suddivisi in cellule e che queste siano state radicalizzate da indottrinatori stranieri provenienti da Tanzania, Somalia e dalla regione dei Grandi Laghi. È la prima volta che il Mozambico si trova di fronte a una minaccia di questo tipo che sembra aver colto impreparate le autorità. Da quando al Sunnah si è palesato nell’ottobre 2017 attaccando la cittadina di Mocímboa da Praia, quest’ultime hanno risposto duramente a livello militare arrestando più di 400 sospetti, ma l’azione di Maputo sembra disorganizzata e incapace di intervenire sul problema alla radice, che invece si è acuito nel corso del 2018.

A pagare c’è la popolazione intimorita e abbandonata.

“Si vive nel terrore di un nemico occulto, senza volto. Che non comunica e non si sa cosa voglia”, spiega a Nigrizia, Dom Luiz Fernando Lisboa, Vescovo cattolico di Pemba. “

La gente si sente intrappolata dal clima di insicurezza, generato anche dal fatto che manca trasparenza su ciò che accade da parte delle autorità che non comunicano”. L’allarme si è innalzato a tal punto da far temere al governo di Maputo che l’escalation di brutalità possa destabilizzare gli affari che sta avviando nell’area mettendo a rischio l’economia del Paese. Proprio a Cabo Delgado nell’ultimo ventennio sono stati scoperti diversi depositi di risorse minerarie, come i rubini di Montepuez, oltre a uno dei più grandi giacimenti offshore di gas naturale al mondo nel Bacino di Rovuma a circa 80km a largo delle coste, che sta per essere sfruttato da multinazionali come l’italiana Eni e le statunitensi Anadarko, ed Exxon Mobil. Un’indagine di religiosi e accademici mozambicani pubblicata un anno fa ha, però, messo in dubbio che i reali obiettivi di al Sunnah fossero necessariamente legati al radicalismo islamico, puntando più verosimilmente su fenomeni di criminalità organizzata e traffici illegali di materie prime. I combattenti sarebbero giovani socialmente marginalizzati, disoccupati, poco istruiti delle provincie mozambicane più povere. Sentendosi abbandonati dalle istituzioni e traditi dalle vane promesse di lavoro e sviluppo di multinazionali straniere, vedrebbero nel gruppo terrorista un’occasione di rivalsa.

Secondo lo studio, i leader della setta farebbero proselitismo grazie a lauti compensi derivanti da traffici di materie prime come legno, rubini, carbone e avorio, di cui è ricca la regione e punterebbero a destabilizzare la zona per favorire il loro business illegale. Alla luce di ciò va considerata la lettura che dà del fenomeno Yussuf Adam, Professore di storia moderna all’Università Eduardo Mondlane di Maputo, secondo cui non ha senso parlare di jihadismo, in quanto si tratterebbe di una sollevazione nata da tensioni sociali irrisolte.

“Il radicalismo islamico è solo uno strumento di facciata utilizzato dai leader della setta per sopravvivere manipolando la rabbia dei giovani. – ha detto l’accademico parlando con Nigrizia -. Alla base c’è una rivolta contadina di chi si sente discriminato e soprattutto sfruttato”.

Per questi motivi non sono inverosimili le testimonianze raccolte da Nigrizia fra i garimpeiros del distretto di Montepuez, secondo cui tra i ribelli del misterioso gruppo terrorista che flagella la provincia ci sarebbero molti giovani che fino a qualche anno fa praticavano attività di estrazione mineraria informale prima di essere espulsi e maltrattati dalle forze di sicurezza per favorire l’avvio delle operazioni di estrazione di rubini da parte della Montepuez Ruby Mining.