Senza migranti non si mangia: gli agricoltori ci spiegano perché
Testo di Sara Manisera
Fotografie di Arianna Pagani
Giu 2020
Articolo pubblicato su Millennium Il Fatto Quotidiano
Tra gli interminabili filari di frutta, allineati uno accanto all’altro, tra la valle Po e la Val Varaita, ai piedi della catena del Monviso, la natura non aspetta. E se nei supermercati i mirtilli, importati da Cile e Guatemala, possono essere comprati anche a dicembre, è a inizio giugno che queste bacche gustose arrivano a piena maturazione in Italia. More, lamponi, ribes e fragole. Frutti piccoli e delicati che richiedono mani altrettanto piccole e veloci. «Bisogna raccogliere in fretta, altrimenti perdi il prodotto e se è troppo molle o ammaccato la Grande distribuzione organizzata non te lo ritira», lamenta Michele Ponso, 52 anni, mentre cammina tra le piante di pesco della sua azienda a Lagnasco. Ogni anno per la raccolta Ponso si affida a lavoratori stranieri: cinesi, rumeni, albanesi, maliani e ivoriani. Quest’anno, però, con il Covid-19 e le frontiere chiuse i braccianti stagionali sono rimasti bloccati all’estero o in altre regioni italiane, tanto che il governo si è trovato costretto a varare una sanatoria – impensabile solo qualche mese fa – dei lavoratori in nero, italiani e stranieri, partendo proprio da agricoltura e allevamento per aggiungere poi il settore domestico. La crisi sanitaria ha svelato dunque quanto i lavoratori stranieri siano essenziali al nostro sistema-Paese e alla nostra agricoltura; uomini e donne spesso invisibili che ogni giorno lavorano nelle campagne italiane, non solo nella raccolta, ma anche in tutti quei lavori agricoli specializzati come la potatura, il diradamento o il trapianto. «È innegabile, il settore dell’ortofrutta si basa sulla manodopera straniera. E non da oggi, almeno da vent’anni. Senza di loro, l’agricoltura si ferma e l’abbiamo visto», conferma Ponso. Secondo l’analisi di Coldiretti nel 2019, nelle campagne, nelle stalle e nelle serre di tutta Italia, hanno lavorato circa 370 mila lavoratori stranieri provenienti da ben 155 Paesi: la comunità più presente è quella rumena, seguita da marocchini, indiani, albanesi e senegalesi. Solo in Piemonte, nel distretto della frutta, su un totale di 15.808 lavoratori, 14.800 erano stranieri. Uno sciame silenzioso di donne e uomini che svolgono un lavoro fondamentale, a fronte di paghe basse e condizioni spesso degradanti.
“IL SETTORE DELL’ORTOFRUTTA SI BASA SU MANODOPERA STRANIERA DA VENT’ANNI. L’EPIDEMIA HA DIMOSTRATO CHE SENZA DI LORO L’ATTIVITÀ SI FERMA”
DA BARLETTA A BOLZANO
Ma allora è vero che gli italiani non vogliono lavorare in agricoltura? La prima risposta appare banale: sì è vero. Per una questione culturale, di benessere e di retribuzione, negli ultimi vent’anni gli italiani hanno preferito il lavoro in ufficio o nelle fabbriche e hanno progressivamente abbandonato l’agricoltura e le campagne. Con il Covid-19, il blocco del turismo e la conseguente chiusura di numerose attività economiche, bar e ristoranti, gli italiani hanno, però, risposto all’appello di numerosi imprenditori agricoli in crisi per l’assenza di braccianti. Incluso quello di Michele Ponso. Preoccupato per l’imminente inizio della stagione, Ponso ha infatti, lanciato l’allarme e in meno di 48 ore hanno risposto più di 400 persone, da Barletta a Bolzano. Lui ne ha assunte 40: 20 per il magazzino e altrettante per la raccolta. Tutti italiani e tutti residenti nel raggio di 100 chilometri. Arrivano al mattino con l’auto e rientrano la sera, così il problema dell’alloggio è risolto. «Sono principalmente giovani che hanno perso il lavoro nel turismo, nella ristorazione o nella cultura», spiega l’imprenditore. Allora gli italiani vogliono lavorare nelle campagne? Oggi sì, ma non certo per le condizioni appetibili dell’agricoltura, quanto più per un bisogno materiale dettato dalla necessità economica. Ma sia per gli italiani, che per gli stranieri, le condizioni lavorative restano uguali. La domanda da farsi, allora, è: perché l’agricoltura è stata poco attraente in questi decenni? E perché questo lavoro è stato così mortificato? Per capirlo bisogna andare oltre i campi agricoli e guardare tutta la filiera agro-alimentare, una filiera distorta dove il cibo è stato progressivamente svalorizzato, trasformato in una commodity, un prodotto standardizzato, come se fosse un qualsiasi bullone. Per comprendere i complessi meccanismi che regolano la filiera della frutta, abbiamo scelto di andare in uno dei suoi distretti pulsanti del Nord Italia: Saluzzo e i ventidue comuni limitrofi della provincia di Cuneo, Verzuolo, Lagnasco, Revello, solo per citarne alcuni. Qui non siamo a Rosarno né a Foggia. Qui ci sono le multinazionali della frutta che esportano in Germania, Arabia Saudita, India e Nuova Zelanda. Qui tutto è perfettamente organizzato e ordinato. Grazie al business della frutta, negli anni Ottanta e Novanta, le famiglie si sono costruite villette a due piani con la piscina, accanto agli antichi cascinali, oggi diroccati. Solo le insegne dei comuni rivelano una memoria contadina sepolta dai successi d el l ’agroindustria: Villa Trininad, Devoto, Salto Grande, Freyre, San Jorge, Arroyito. Nomi di città argentine gemellate con questi paesini del Piemonte. Dalla seconda metà dell’Ottocento fino al secondo dopoguerra, i contadini piemontesi hanno scelto la strada dell’emigrazione, prima stagionale ed europea, poi definitiva e transoceanica. Come il nonno di Michele Ponso, emigrato nel 1905 in Argentina e tornato nel 1920 con abbastanza soldi in tasca per comprarsi qualche ettaro di terra. «Cosa le direbbe oggi suo nonno del modo di produrre la frutta?», domandiamo a Michele, che oggi di ettari ne gestisce 120, con un fatturato di 10 milioni di euro. «Mi direbbe che non è giusto. La logica dietro la grande distribuzione è l’esasperazione dell’estetica. Perché devo cerare una mela? Perché devo buttare via una pesca o una mela se ha una macchiolina o una puntura di insetto? È ovvio, più utilizzi la chimica e i fitofarmaci più abbatti le percentuali di frutta da buttare, quindi produci di più. Se tratti meno, avrai una maggior percentuale di scarto, ma così rischi di non stare sul mercato alle condizioni di oggi, perché la frutta te la pagano troppo poco o la comprano da altri Paesi, dove costa meno. Si dovrebbe fare come in Francia: obbligare la grande distribuzione organizzata a privilegiare il prodotto italiano». A pochi chilometri dall’azienda di Ponso, incontriamo un altro imprenditore, considerato da queste parti il re delle mele: Marco Rivoira, 47 anni e tre generazioni alle spalle. Il gruppo Rivoira Spa – che oltre a produzione agricola, commercializzazione di frutta controlla anche le fonti dell’acqua Eva – ha un fatturato di 120 milioni di euro l’anno, occupando 2.500 persone con un indotto di 2.000. Il 65% del suo fatturato si basa sulle esportazioni: dal Sud America alla Nuova Zelanda, passando per la Germania e i Paesi scandinavi. «Noi siamo nati con la camicia», dice «e abbiamo scelto la tecnologia e l’innovazione». Ed è vero: pannelli solari, carrelli automatici in radiofrequenza, infrarossi ed ecografi per le mele, torri frigorifere alte trentasei metri, app per i produttori che possono seguire il prodotto conferito in tempo reale.
QUEST’ANNO GLI ITALIANI SONO TORNATI NEI CAMPI, MA SOLO CHI HA PERSO IL LAVORO PER IL LOCKDOWN. FATICA E PAGHE MISERE VALGONO PER TUTTI
I TEMPI DELLE MELE
Rivoira non è un contadino che zappa la terra, è un imprenditore orgoglioso della sua filosofia aziendale. In un tour guidato all’interno di uno degli stabilimenti più moderni al mondo, ci spiega come funziona la filiera della mela. «Quello che tu mangi a gennaio o febbraio è quello che hai raccolto mesi prima», spiega. Il frutto, infatti, è raccolto tra settembre e novembre dai braccianti. Le tonnellate di mele sono conferite dai produttori nello stabilimento e sono stipate in un’enorme cella frigorifera per otto, nove o dieci mesi, in atmosfera controllata, fino a quando il mercato non le richiede. Le mele sono fotografate 24 volte in infrarossi, quelle con piccoli difetti o ammaccature, scartate. Infine sono imballate, caricate sui tir o sulle navi e spedite in giro per il mondo, fino ad arrivare ai supermercati e ai consumatori.
In linea teorica non c’è niente di male in questo modello: gli imprenditori fanno reddito e seguono il mercato. Nessuna controindicazione? In realtà, sono gli stessi imprenditori a spiegarlo. «I gruppi della grande distribuzione organizzata sono quattro o cinque in Italia e altrettanti in Europa e sono gli unici a comprare. La ricerca sfrenata del prezzo più basso e della convenienza ha svilito l’agricoltura italiana. Sono loro a dettare il prezzo e le condizioni di contratto», dice Rivoira. » Così succede che un camion carico di mele parte da Saluzzo, si fa 1.500 chilometri e arriva in Germania; al controllo campione di cinque cassette trovano il 2% di ammaccature e lo rimandano indietro. Il camion fa altri 1.500 chilometri, gli imballaggi e le mele vengono buttate, e un altro camion riparte per farsi altri 1.500 chilometri. «Se non ti va bene, loro acquistano da un’altra parte», continua l’imprenditore. Al regime di quasi monopolio delle catene della distribuzione e agli enormi fatturati (il 70% della popolazione italiana fa gli acquisti all’interno della grande distribuzione organizzata) si aggiungono altre storture: il sottocosto, gli storni, le promozioni, le aste al doppio ribasso, come hanno denunciato in questi
anni i giornalisti Stefano Liberti e Fabio Ciconte, e i contributi alle aperture dei negozi imposti sui fornitori agricoli. In pratica, per ogni nuovo punto vendita aperto da una catena di supermercati, i fornitori e i produttori sono obbligati a pagare anche 4-5.000 euro per aver posto sugli scaffali. La grande distribuzione » schiaccia i fornitori agricoli e i trasformatori che a loro volta schiacciano i produttori, che a loro volta comprimono i costi su i braccianti. «La colpa è anche nostra», ammette Rivoira, «per reazione ai prezzi bassi, si va alla ricerca di massimizzare le produzioni e questo crea una sproporzione tra domanda e offerta». La conferma arriva da Igor Varrone, 43 anni, direttore della Confederazione italiana agricoltori (Cia): «Il sistema così non può reggere, ma anche gli imprenditori hanno delle responsabilità. Dovrebbero unirsi, creare un marchio forte, garantire ai lavoratori buone condizioni, avere una quantità definita di mele o pesche e un certo tipo di qualità. Così puoi creare un marchio con una promozione unica e avere più potere di contrattazione con la grande distribuzione. La mela Melinda la conoscono tutti, quella di Cuneo no. La filiera deve diventare una catena del valore per tutti, altrimenti a pagare saranno il primo e l’ultimo, ossia il consumatore e il bracciante». I braccianti, appunto. E qui torniamo alla nostra domanda iniziale.
Se per il contratto collettivo provinciale la paga oraria lorda dovrebbe essere 7,20 euro, la realtà è diversa. Negli ultimi due anni, secondo i dati di Flai-Cgil Cuneo, i contratti sono aumentati del 50 per cento, ma persistono sfruttamento e irregolarità diffusa, il cosiddetto lavoro grigio. Si firma il contratto, ma il patto si fa sul campo. La paga reale oscilla tra i 4,50 e i 5,50 euro all’ora, una parte in busta, il restante in nero. «In tanti anni non ho mai visto più di 18 giorni segnati in busta paga, un numero inferiore rispetto a quelle effettivamente lavorate», spiega Virginia Sabbatini, 30 anni, coordinatrice del Presidio della Caritas di Saluzzo, che da anni monitora le condizioni dei raccoglitori della frutta. «Sicuramente l’imprenditore che fa la frutta non riesce più a garantirsi uno status sociale ed economico come prima, ma io in questi anni ho visto tanti braccianti dormire per strada o sul cartone, che è ben diverso. Se i contratti fossero rispettati, questi lavoratori stranieri stagionali potrebbero anche fermarsi, affittarsi una casa e forse anche più italiani sarebbero disposti a lavorare in campagna»
UN SISTEMA STROZZATO AL CUI VERTICE STA LA GRANDE DISTRIBUZIONE, CHE IMPONE CONDIZIONI CAPESTRO SUI PREZZI E PERSINO SULL’ESTETICA DEL PRODOTTO
CON LA PIOGGIA E CON IL SOLE
Senza una retribuzione giusta e senza un servizio di intermediazione efficace, capace di incrociare domanda e offerta di lavoro, le asimmetrie si accentuano. Coldiretti, Confagricoltura, Regione Piemonte e Cia hanno lanciato quattro piattaforme diverse, invece di organizzare un unico servizio online o una app meno dispersiva e in più lingue. Intanto a Saluzzo, con l’allentarsi del l oc k do w n, i primi braccianti cominciano ad arrivare da Rosarno e da altre regioni d’Italia e si teme che la situazione possa esplodere, come ogni anno, all’inizio della stagione dei mirtilli, delle pesche e delle mele. Lasciando alle spalle il Monviso e salendo verso Barge, «il paese degli scalpellini cinesi», Lele Odiardo, 50 anni, educatore e membro del comitato Antirazzista di Saluzzo, ci accompagna nell’ultima tappa di questo viaggio tra gli imprenditori agricoli della frutta. Odiardo collabora anche con l’Istituto storico della resistenza di Cuneo, è un uomo colto e modesto e un profondo conoscitore del territorio. Sono decenni che studia e osserva i flussi dei braccianti stagionali: «Prima scendevano i braccianti dalle valli, poi sono arrivati i meridionali, negli anni ’80-’90 marocchini e albanesi, poi polacchi e oggi gli africani. La verità è che questo è un lavoro pesante, caratterizzato dai picchi durante la raccolta: si raccolgono le pesche sotto il sole e i kiwi sotto l’acqua. Chi lo fa è chi ha davvero bisogno. E l’abbiamo visto, con la crisi del Covid-19 si cerca di reclutare le categorie più fragili: disoccupati, cassa integrati e stranieri». Arriviamo a destinazione. In una vecchia stalla ristrutturata a Bagnolo ci attende Danilo Boaglio, 51 anni, un «piccolo contadino-apicoltore», ci tiene a ribadire. Per ventidue anni ha lavorato come operaio, poi si è licenziato e ha scelto di ritornare alla campagna, anche se, ammette, «un po’ mi sono pentito», perché non si è sentito riconosciuto come un guardiano della terra e il suo lavoro è stato equiparato ai grandi imprenditori agricoli. «Io non produco in serie perché in natura non c’è niente di uguale, ma ciò che vediamo ogni giorno nel supermercato è un prodotto omologato, a costi sempre più bassi. Questi prezzi, però, hanno delle ripercussioni su tutti. Le piante si ammalano e diventano sempre più deboli, i parassiti più resistenti, la biodiversità viene uccisa. La cosa assurda è che non ci rendiamo conto che senza insetti la frutta non esce più. Ma chi paga il costo di questo sistema?», si domanda. «I lavoratori e l’ambiente»