Diario di un giornalista #2
Tra alcolici e check-in senza aspettarsi continuità
di Davide Lemmi
Valigia: fatta. Scamorza: presa. Hard disk nuovo: messo. Quanti soldi vanno via per ‘sta roba. Il tampone…cazzo! Me ne ero dimenticato. Devo prenotarlo.
Ogni partenza ha i suoi riti. Ogni partenza ha le sue insicurezze. Ogni partenza ha un effetto lassativo sull’intestino. Non so se succede a tutti/e, giornalisti/e e no, ma tant’è. Forse a questo punto è necessaria un’introduzione, ma facciamo finta che ci conosciamo di già. Vi dico solo di non creare aspettative su tutto ciò, punto ad un stream of consciousness alla Joyce. I pezzi li assemblerete voi…semmai ci saranno.
Riguardo il biglietto aereo per la quarta volta. Manca ancora qualche giorno e mi accorgo che la danza è già partita. Il 1 settembre, Brussels airlines, da Firenze. Orario d’arrivo 16e30: Dakar. Scrivere a Romano per la grigliata. Ricordarsi l’affitto da pagare. Se solo penso alla quantità di polvere che mi aspetta a casa, tremo. Quando lasci senza spazzare il balcone per più di due giorni, si trasforma nella spiaggia di Viareggio, con tanto di conchiglie, ombrelloni, Gazzetta dello Sport e animaletti strani, vivi e morti. È semplicemente l’africa occidentale.
Giretto su Facebook. Ennesima sensazione nauseabonda da assedio editorialistico. “A Montecatini sono arrivati i talebani”, ma speriamo de no, dico io. Questa volta, ovviamente, è il turno dell’Afghanistan per essere spazzato via nell’inutilità del discorso da bar. Anche se a pensarci bene, essendo cresciuto in un bar ARCI della provincia toscana, quei discorsi avevano un po’ più di saggezza. La bestemmia era facile e se proprio si litigava, finiva con una rappacificazione davanti ad un quartino di vino rosso. In qualsiasi caso noto che il salotto afghano si sta già svuotando. Chissà quale sarà il prossimo?
Sento che avanza un momento paternalistico dentro di me. Dovrei fermarmi, ma mi sono imposto di scrivere.
I Social Network non sono la realtà. Minchia, che rivelazione! Adesso posso anche aprire il mio canale YouTube di life motivation.
Ripeti come un mantra. Esci. Parla. Comunica. Continua. Esci. Parla. Comunica…
Guardo i colleghi e le colleghe sui Social, sale l’invidia. Il lavoro di informazione che stanno facendo sulla situazione in Afghanistan è enorme. Ma come fanno a fare tutto? E soprattutto, come fanno a non sentirsi schiacciati da una realtà che, fuori dallo stretto circolo personale social, schiaccia e banalizza le opinioni strutturate. Mi chiedo se a questo punto il nostro “attivismo lavorativo”, perché penso che il giornalismo sia attivismo…ok, fatemi spiegare. Non intendo attivismo sul tema, ma sul lavoro stesso. Ecco, mi chiedo se non deve prendere una posizione netta. Ovvero mandare in culo il tutto. Su Facebook, su Instagram, su qualsiasi piattaforma per quanto buona sia l’analisi o il commento, comunque vige la regola dell’autoreferenza. È proprio la struttura che non funziona. Certe volte sento che si resiste sul centimetro ma che la battaglia sia ormai persa.
Chiudo Facebook. Forse è meglio. Apro whatsapp. Disastro.
La chat con lei è ancora ferma a ieri. La partenza mi ricorda l’instabilità cronica nei rapporti umani e soprattutto in quelli, diciamo…sentimentali. Coniugare la droga giornalistica con una relazione sana è sforzo immane. Ci ho perso i capelli.
Chiudo whatsapp. Meglio.
Posiziono i calzini nella valigia. Sale un po’ di eccitazione. Arriva la mail di una editor, chiede lumi su un video realizzato in Mali. Rispondo. Il video piace, sospiro di sollievo. Almeno questa va liscia…
Entriamo nel secondo anno di Senegal e come recitava Caparezza, “il secondo album è sempre quello più difficile nella carriera di un artista”. Ed è cosi per tutti i progetti realizzati da liberi professionisti. Ti devi confermare. E lo devi fare mentre ti senti solo, alienato da una realtà che spesso non comprendi e con mille insicurezze.
Diciamolo una volta per tutte, anche per i registi che provano a realizzare film sui reporter: la figura del macho e della macha (oddio non saprei come tradurlo) con macchina fotografica, taccuino e camicia polverosa è una cagata. Non esiste. Ma ancora abbiamo questi stereotipi? E per favore non ci chiedete più qual è il posto più pericoloso che abbiamo visto, perché la risposta sarà sempre e solo una: la provincia italiana (almeno nel mio caso).
La verità è che crediamo in ciò che facciamo, ma questo ci costa fatica. Energia. Rapporti. Soldi. Rifiuti. Mail senza risposta. Introspezione fino all’esaurimento.
Ok, la prima valigia è chiusa e io non ho un finale. Quindi la chiuderò così: forse alla prossima.