Diario di un giornalista #1

Tra alcolici e check-in senza aspettarsi continuità

Ore 7 e 30, occhi sbarrati. La luce penetra dalla finestra, la tenda è troppo corta. Lo tsunami di pensieri ti colpisce in piena faccia. Non c’è nessun avvertimento. Nessuna pietà pre-caffe. Ora, lì. Nel mezzo del Kurdistan. Non hai scelta. Allora cerchi la posizione giusta. Esplori palmo palmo il letto, evitando la molla che per tutta la notte si è conficcata nelle costole. Sguardo al soffitto. E si comincia con il flusso. È inutile opporre resistenza. Ti fai cullare passivamente, trasportato dalla corrente di un fiume, con la speranza di non incontrare cascate e rocce.

I primi dieci minuti sono volti. Persone incontrate e sfuggite alla memoria. Ti appiccichi ai ricordi come una cozza sullo scoglio. Tornano alla mente parole. Occhi. Rughe. Mani. Sorrisi. Pianti. Lì dove normalmente c’è un muro bianco, adesso le diapositive si susseguono. Si palesa la paura di dimenticare. L’oblio è una dolce compagna, ti permette di sopravvivere al carico emotivo, ma ti aggiunge un certo senso di colpa. Il senso di colpa dello straniero che passa, fa il suo lavoro e se ne va, incapace di comprendere realmente cosa sta ascoltando.

Siamo ladri di storie. Carichiamo il nostro sacco di parole, lo chiudiamo in hard disk e schede SD, trasportandolo e condividendolo con altri esseri umani. E nonostante ci sforziamo che nulla venga perso lungo la strada, inevitabilmente succede. Sono i compromessi che facciamo. I compromessi per vedere il lavoro portato a termine. 

Ore 7 e 38, la mente mi paracaduta in Mali. Ore 7 e 39 sono in Burkina Faso. Ore 7 e 40 in Grecia. Ore 7 e 41 in Bangladesh. C’è un senso appagante in tutto questo. Nella penombra della domenica mattina, scappa un sorriso ripensando a quella sera a Dacca alla ricerca di una birra. Uno spasmo alla coscia si attiva ricordando quel burrone in Etiopia. La rabbia ti sale quando ti passano davanti gli sguardi carichi di paura dei peul sfollati nel nord del Burkina. Ti senti impotente, inutile, quando riascolti quella famiglia nell’Akkar libanese. Ti geli alle parole di Mohamed nella tenda di Rekhanye. 

La giostra si ferma. Sulle luci, sui colori, sui paesaggi cala lentamente la nebbia. Ore 7 e 45. Nuovo capitolo. Cambio di scenografia. Da dove prima entrava solo luce, si delinea un panorama. In fondo, lontano, dopo un deserto fatto di gru, case, palazzi, cemento, strade, auto, ma senza vita, scorgi le montagne intorno ad Erbil. La luce del mattino le incornicia di un azzurro tenue. Delicato. Una dolcezza che contrasta con la loro asprezza. 

“I curdi non hanno amici ma montagne”. I primi pensieri svolazzano nel banale. I secondi, non fanno eccezione. Cos’è questo Paese che vorrebbe essere tale ma non può? Che si comporta come entità, ma non ne ha la forza? Circondato. Esausto. Gestito da clan di valvassori e valvassini. Quante guerre sono state combattute su queste montagne per il concetto di identità e affiliazione? E cos’è rimasto in mano a questi popoli che ormai si incanalano dentro enormi centri commerciali costruiti da aziende turche, lasciando al tempo e alla memoria i suq? Martiri del capitalismo e della globalizzazione. 

Succede così che nello stesso istante in cui i droni turchi sorpassano i confini, puoi comodamente comprare il tuo lavandino made in Ankara tra le mille luci scintillanti e colorate. Nello stesso momento in cui quel drone individua l’obiettivo, una macchina del XXX, te puoi sfrecciare con il nuovo 4X4 Toyota su una strada troppo grande perfino per contenere il tuo ego. Nella frazione di secondo in cui l’auto raggiunge un piccolo villaggio sperso tra le montagne al confine tra Iraq e Iran, il tuo condizionatore si attiva dandoti la sensazione di una brezza autunnale. 

Poi è un’esplosione. Un big bang che trascina via la vita. L’auto costeggiava un ospedale. L’unico nell’area. Ciò che rimane sono calcinacci, fili elettrici recisi e medicinali sul pavimento. Ma di tutto ciò, nel modello esportato dai Paesi del golfo, non rimane traccia. Se va bene, è una notizia. 

Blackout. Altro salto spazio/tempo. La corrente della mente si fa più lenta. Sono un giornalista. Qual è lo scopo? Informare, certo. Ma non solo. Così nell’ultimo sforzo di dirigersi verso la tranquillità della costa, afferro stretto un tronco fatto di idee. Quelle di chi mi circonda. Le prendo in prestito dai mille volti incontrati, dalla passione della mia collega Sara, dalla lotta di Oumar, dalla dolcezza di Jasmine, dall’ospitalità senza interesse di Kamaran e dall’evasione alla pressione di Ali. 

E non sono più solo. 

Siamo giornalisti. Informiamo. Certo. Ma trasportiamo anche le idee. Impolliniamo. Se fosse un sogno, saremmo il ponte per i miliardi di esseri umani che hanno una storia che deve essere ascoltata. Siamo l’antidoto alla solitudine e alla paura. Ne dovremmo essere orgogliosi. 

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