Buona vita A.
Questa è una storia che non si può raccontare.
Non interessa a nessuno. Ti dicono.
A. ha 17 anni, è un ragazzo sveglio, intelligente, quarto di tre fratelli laureati in ingegneria e medicina. Il papà è un Mullah, uno di quelli aperti, che quando i salafiti si sono fatti spazio, lui continuava a tagliarsi la barba, ogni mattina. È uno di quelli che negli anni Novanta convinceva le donne a separarsi dai mariti violenti, costrette a sposarsi giovanissime. È uno che durante la preghiera del venerdì non legge solo i versetti del Corano ma anche poesie di poeti curdi soprannominati i poeti dei poveri, “perché”, dice, “la letteratura nutre l’anima”.
A. arriva da una famiglia benestante e a 17 anni, come quasi tutti gli adolescenti, vuole viaggiare, conoscere il mondo, scoprire cosa c’è fuori. Vedere Berlino, Londra, Barcellona.
A. è anche un po’ viziato e capriccioso, come tutti gli adolescenti a quell’età. E poi gran parte dei suoi amici sono già andati, il suo paese lo vede senza speranza, sopraffatto da dinamiche geopolitiche regionali, locali e internazionali, “senza fine mai”.
Solo che A. ha un passaporto iracheno.
Che non gli permette di prendere visti turistici, di lavoro.
Insomma con il passaporto che ha non puó viaggiare da nessuna parte.
E la sua unica strada è quella dello smuggler. Il trafficante.
Mica quello cattivo come tutti amano dipingere, sì perché il mondo non è diviso in bianco e nero.
Il suo smuggler è un vicino di casa, un camionista che conosce bene le rotte e le mappe.
Così A, capriccioso e testardo, convince i suoi fratelli più grandi a partire. A pagare il viaggio. Mica con i voli low cost che costano 50 euro. No, quello è un privilegio di pochi. Lui deve pagare uno, due, dieci trafficanti.
Buona vita A.
Lacrime e addi.
A. prende un aereo. Erbil Beirut via, perché il visto non serve.
Poi Beirut - Minsk, Bielorussia.
Lí A. inizia a capire cosa vuol dire diventare grande. Cosa vuol dire l’ingiustizia.
Due settimane nei boschi a mangiare erba e a vomitare.
La polizia bielorussa lo spinge verso la frontiera polacca e loro lo respingono in Bielorussia.
A. non puó andare avanti, né tornare indietro.
Dall’altra parte di questa maledetta frontiera c’é un fratello in angoscia che prova in tutti i modi a trovare una soluzione.
K. è un ingegnere e un attivista per i diritti umani. A differenze di A. è uno di quelli che vuole restare per cambiare il suo Paese.
Mentre aiuta qualche giornalista arrestato e torturato, piange, nascosto nel bagno del suo ufficio.
Capisce che suo fratello potrebbe morire ma alla mamma e al suo papà continua a dire “va tutto bene, gli hanno dato da mangiare, ha un letto. Sono gentili e ospitali anche lì, come qui da noi in Kurdistan”.
Le ore passano, la voce di A. si fa sempre più debole. È stremato, in un bosco, senza acqua e cibo.
K. chiama un altro smuggler, che chiama un altro smuggler.
20mila dollari “se mandi un’auto a prendere mio fratello”.
Affare fatto. La frontiera è vicina e la Polonia è in Europa. Passano le ore, interminabili e strazianti.
Poi arriva la chiamata, “sto bene sono su un’auto direzione Germania. Mi hanno dato da mangiare dei sandwich e una pepsi”.
20 mila dollari.
Con lui altri quattro ragazzini testardi, curiosi di conoscere cosa c’è lì fuori.
Il sorriso di K. non si può descrivere, gli occhi sono gonfi di lacrime di gioia, di sollievo, di notti non dormite.
Diciassette per la precisione, passate a pregare, telefonare, piangere e attendere.
Diciassette giorni per un viaggio che qualsiasi cittadino europeo farebbe in meno di otto ore.
Questa è la frontiera.
Questa è l’assenza di un diritto garantito a pochi privilegiati che possiedono un determinato passaporto.
Il diritto al viaggio.
Finché continueremo a parlare di frontiera solo con lo sguardo securitario, di commiserazione e di pietismo, continueranno ad esserci migliaia di A.
Va ribaltata la narrazione e messo al centro il diritto al viaggio. Va raccontata la causa, il perché le persone migrano in questo modo. Perché non ci sono canali legali di accesso. Perché non si possono ottenere visti.
Forse così ci saranno tanti A. che partiranno, con un visto su un aereo, guarderanno che c’è lì fuori e capiranno che forse casa è il posto migliore dove stare.
O forse no.
Ma questa, alla fine, sarebbe la storia di tanti che si muovono e cercano la propria felicità in un altro posto che un giorno chiamarenno casa.