La frontiera è una lunga attesa.

La frontiera è una lunga attesa.
Una confusione di sportelli, code e controlli nella quale sarebbe impossibile districarsi senza un amico del posto che ci guida con sicurezza da un ufficio all’altro. Timbri su timbri, pezzi di carta volanti, innumerevoli foto ai nostri passaporti. Con Bart, il collega con cui viaggio, scommettiamo quante volte alla fine della giornata avremo mostrato il nostro passaporto: lui dice meno di 30, io dico di più.
Credo di aver vinto la scommessa.

Siamo in viaggio da quasi 20 ore: aeroporto, scalo, altro aereo, la macchina di un amico che ci attende a Erbil alle 4 del mattino, subito diretti al confine con la Siria. Chi arriva dopo le 14 non entra, e con il valico aperto solo tre volte a settimana non possiamo rischiare. Il privilegio di avere “il passaporto giusto”, ci fa saltare una fila di macchine in coda da prima dell’alba. Come giornalisti seguiamo un iter a parte, tramite gli uffici per le relazioni con i media.

Dopo l’ennesimo timbro, superiamo il confine a bordo di un piccolo autobus, sul ponte galleggiante che collega le due sponde del Tigri: da una parte il Kurdistan iracheno, dall’altra quello siriano.

Le stesse domande - seppur cortesemente - ci vengono ripetute più e più volte: dove viaggeremo, con chi, di quale argomento ci stiamo occupando, chi lavorerà con noi, qual è il giornale per cui lavoriamo, eccetera.

A creare da subito una discreta confusione il fatto che siamo freelance e che abbiamo due lettere di media diversi per seguire due argomenti differenti. In ogni caso, tre ore più tardi, dopo molti uffici, innumerevoli caffè e procedure burocratiche che ci risultano sempre meno intellegibili possiamo andare. Ancora non sappiamo - per fortuna - che non è finita, visto che saremo costretti a tornare qui due giorni dopo.

Finalmente siamo fuori. Mentre cerchiamo l’amico che ci è venuto a prendere, ci facciamo spazio tra una folla di famiglie in attesa e persone che si riabbracciamo dopo anni, in lacrime. Incredibile il numero di siriani che ormai parla tedesco.

Dopo altre tre ore di macchina (a questo punto siamo in viaggio ininterrottamente da 36 ore) arriviamo ad Hasaka: faremo base qui per le prossime tre settimane, per indagare e cercare di raccontare la crisi idrica che ha lasciato senz’acqua corrente un milione di persone nel nord est della Siria.

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