Cristo si è fermato a Porga

di Davide Lemmi e Marco Simoncelli

L’umidità mattutina si dirada, lasciando spazio ad un cielo plumbeo. Il 4X4 Toyota corre veloce su una strada dissestata. Pochi alberi, qualche casa in argilla, ettari di cotone: il finestrino regala un panorama monotono. Una manciata di macchine, moto e bus percorrono i 50 km che separano Tanguita’ da Porga. Posto di blocco dopo posto di blocco ci avviciniamo al confine con il Burkina Faso. I mezzi corazzati dell’esercito scivolano sull’asfalto aggirando gruppi di asini incustoditi.

L’estremo nord del Benin è in guerra, ma ancora nessuno se n’è accorto. Nessuno…tranne coloro che ci vivono. 

È un conflitto infido. Un conflitto fatto di sopravvivenza in un ambiente ostile. Senza acqua, senza cibo, senza gasolio, senza telecamere. L’ultimo checkpoint regala una fotografia disarmante: soldati appisolati dietro a sacchi di sabbia controllano le auto di passaggio. Lo sbarramento della carreggiata è formato da tronchi d’albero. La base militare, che si staglia alle spalle del posto di blocco, è recintata dal solo filo spinato. Gli occupanti sono carne da macello. Ragazzi appena maggiorenni originari del sud, mandati a fermare incursioni di jihadisti meglio armati e più preparati. 

Porga è isolata. Le poche migliaia di anime che ci vivono respirano paura. Alle 19 si chiudono gli ingressi: non si circola, non si esce, non si entra. Ci si stringe all’oggi, perché il domani è oscuro ed emana incubi. Il silenzio della città è quasi irreale. Solo le cicale sfidano questo tacito consenso al mutismo. 

Il parroco ci apre le porte di casa sua. Il pranzo è veloce, ma accogliente, in pieno stile locale. La tavola è posizionata in modo da controllare gli accessi dal cancello. A Porga si dorme con un occhio aperto. 

In questo luogo le minacce non sono velate. Prete e Imam, con grande sforzo e coraggio, ci consegnano un’intervista sfidando l’istinto primordiale alla sopravvivenza. Nel villaggio tutti si conoscono. Tutti sanno chi collabora, ma denunciare non è possibile.  

Questa cittadina di confine non è una mosca bianca. Nel Sahel ce ne sono centinaia di posti così. Sono non luoghi.

Villaggi e città lasciate all’oblio che formano un universo di milioni di anime Le caratteristiche sono simili: rurali, lontane dai centri di governo, militarizzate, private di risorse e depresse economicamente. Centinaia di puntini sulla carta geografica in cui l’accesso all’acqua è un miraggio e la desertificazione miete vittime al ritmo di un conflitto. 

Ed è a queste latitudine che ti chiedi la reale valenza del tuo lavoro. Incontri e raccogli testimonianze. Dialoghi e ascolti. Ma da quel finestrino dell’aereo, che immancabilmente ti riporterà a casa, arriveranno sempre dubbi sull’impatto di ciò che fai. 

Ti spiaccichi contro il plexiglas, mentre i motori accelerano. Una volta che il carrello si stacca, inizia una certa frustrazione che a 11mila metri lascia dietro di sé solo domande e nessuna risposta. Sballottati da un paese all’altro dell’Africa Occidentale, hai visto un territorio grande come la Scandinavia nelle mani di tagliagole, grandi aziende straniere e politici corrotti.

Nessuno scrive canzoni. Nessuno organizza petizioni. Nessuno chiede giustizia sociale.

Alle Porga del mondo rimane il silenzio, un cielo metallico e un destino pressoché scritto. 

 

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