Le luci della città in lontananza sono lampare nel buio.

In sottofondo la voce sbiadita di un telegiornale. Le immagini di Izyum, Ucraina, scivolano sugli occhi. Sono fosse comuni. Così vicine da poter sentire l’odore, così lontane da farci divenire quasi spettatori dell’ennesima serie Netflix. È abbastanza, il disgusto sale. Fa male. L’ennesimo gancio ben assestato alla bocca dello stomaco. Spegni. Silenzio. Nella stanza un’aria ovattata. 

Torni indietro nel tempo. Torni in uno spazio tempo parallelo e lontano. Sono i tuoi anni sul campo. Ne sono passati cinque: un’eternità. Una tenda di un campo profughi nel nord del Libano. È notte. I thè emanano calore. Le sigarette si accumulano nel posacenere. In silenzio, otto persone, sedute o in piedi, ascoltano un racconto. Uno dei tanti racconti provenienti dalla Siria. La storia di un avvocato fermato a un posto di blocco e gettato nelle tenebre della non vita. Due anni di torture e sevizie. Due anni in una gabbia come casa, con altre decine di coinquilini a condividerne la sorte. Due anni a lottare per del cibo lanciato dai carcerieri. Due anni senza notizie, senza speranze. 

Insegui altri ricordi, giungi da qualche parte. Un altro luogo, un'altra storia. È sempre sera, ma c'è un profumo di Mediterraneo che ti avvolge come un abbraccio. Le luci della città in lontananza sono lampare nel buio. Siamo ad Algeri. Un uomo racconta la sua storia: un attentato sfiorato, un Paese lacerato, una guerra intestina. Eppure nella sua voce scorgi la ferma convinzione verso il suo Paese. Verso gli uomini e le donne di cui è composto, ovvero il suo sangue. E così da lontano giunge un grido di speranza: il dittatore è caduto. È il momento di scendere in piazza, il momento di festeggiare. Algeri esplode di gioia. I suoi fantasmi possono dormire tranquilli, almeno per una notte. 

Ormai in preda alle rapide, ti lasci andare. Senza opporre resistenza alcuna. Il sudore imperla la fronte. È un caldo umido che ti leva il fiato. Le case basse in argilla sono circondate da una fitta foresta. La strada di terra e fango è una linea dritta senza fine, oltre a quello c'è l’ignoto. Due ragazze recuperano acqua da un pozzo. Anne e Mado, i nomi ritornano sempre. Sono lontane da casa. Sono lontane da quando furono rapite dal Lord Resistance Army per diventare schiave. Fuggite insieme, ora vivono sotto lo stesso tetto, o almeno spero sia ancora così. Due fantasmi come molti in quel posto dimenticato da Dio chiamato Obo, Repubblica Centrafricana. Vittime correlate di traffici di diamanti, oro, avorio e armi. Un esercito innominato. Ma la mente te le fa ricordare sorridenti, mentre si abbracciano e scherzano, parlando di ragazzi. 

La televisione, spenta, non trasmette più immagini. Lo schermo è nero. Bastano e avanzano quelle che hai in testa: la tua memoria. Che è anche attivismo. E se per anni ti sei illuso di essere un giornalista senza propensioni politiche, infine ti rendi conto che il fatto stesso di trasmettere alcuni tipi di storie ti porta a prendere una posizione. È la scoperta dell’acqua calda. In un mondo così disequilibrato, non puoi fare altro. Ed è forse anche il senso più profondo di questo lavoro. Farsi domande, cercare risposte, trasmettere umanità ed empatia, al fine di non lasciare il nostro destino in mano ad una narrazione in bianco e nero, dove con facilità si scivola nella rabbia, nella frustrazione e nella creazione di un nemico. È un dovere: creare un ponte, fatto di fatti, tra esseri umani. Rendere vicino e comprensibile ciò che non lo è, scegliendo. 

Di Davide Lemmi

Previous
Previous

Pretendere dalla realtà sempre di più

Next
Next

Una riflessione di… Sara Manisera